In Italia il calcio è lo sport per eccellenza, quello nazionale, anche se non sta scritto nella Costituzione.
Di fronte ad un evento sportivo a carattere nazionale o europeo i problemi gravi che affliggono il Paese impallidiscono, vengono dimenticati o quasi (per qualche giorno). Nel 1948 la vittoria di Gino Bartali al Tour de France evitò lo scoppio di una guerra civile. Stava lì lì per scoppiare alla notizia del ferimento – per fortuna non mortale – di Palmiro Togliatti, capo storico, carismatico, del Partito Comunista Italiano (PCI in sigla). Oggi l’Italia, in semifinale negli Europei di calcio, ha galvanizzato la stragrande maggioranza degli italiani, tenendoli incollati nelle case o nelle grandi piazze delle città di fronte rispettivamente ai televisori o ai maxischermi televisivi per oltre due ore e mezzo; ha fatto dimenticare per qualche giorno la pandemia da Covid, come pure la pericolosità della variante “delta”, quella indiana. Si legge sui giornali che tornano a salire i contagi mentre ci si aspetterebbe un progressivo calo in virtù della vaccinazione che, anche se tra mille difficoltà e altrettante contraddizioni, sta procedendo in vista dell’agognata immunità di gregge, da più parti – politica e scientifica – promessaci.
E vengo al dunque, cioè alle mie considerazioni sulla partita di calcio disputata qualche sera fa tra l’Italia e la Spagna, un avversario di tutto rispetto, blasonato (come si usa dire). Per intenderci, non sono un tifoso – lo sono stato agli inizi degli anni Cinquanta – della squadra del mio paese (serie D, se non ricordo male) quando, da dodicenne squattrinato, in compagnia di altri coetanei, più squattrinati di me, entravo allo stadio al secondo tempo della partita, quando cioè si aprivano i cancelli e l’ingresso diventava gratuito. Mi rivedo ancora in calzoncini corti – allora si usavano, anche per risparmiare (ci si leccava le ferite di una guerra persa, e come!) – fremente di poter gridare e incoraggiare la squadra del mio paese, specialmente nei derby con i paesi vicini. Lo stadio del mio paese non aveva gli spalti, le tribune né le curve “calde”, ma gli slogan caratteristici corali c’erano sempre. Devo dire a questo punto – ed è il motivo che mi ha spinto a scrivere questa lettera – che la conclusine della gara ai rigori, dopo gli estenuanti due tempi supplementari – anche gli sportivi di professione accusano la fatica quando vengono colti dai dolorosissimi crampi alle gambe o respirano affannosamente. E per fortuna con i rigori si procede ad oltranza perché prima – anni fa – era previsto il lancio in aria della monetina. Ma si può assegnare un titolo così prestigioso affidandosi, cioè tirando in campo – per usare un termine sportivo – la fortuna? Non è possibile! Anche perché quel rigore sbagliato è stato calciato da un giocatore campione, di lunga esperienza che proprio in quella partita era stato il migliore in campo. Per tutta la vita quell’errore rappresenterà un grosso neo nella sua carriera di calciatore professionista. E, allora, che fare? Quando la partita si conclude in parità, anche dopo i due tempi supplementari, dovrebbe essere ripetuta dopo due o tre giorni. Sarebbe più logico e, soprattutto, più giusto.
(Lettera del dott. S. Sisinni).