Qualche giorno fa, leggendo un quotidiano, i miei occhi, da tempo malandati, sono stati catturati da una pagina sulla quale campeggiava questo titolo: "Errori giudiziari".
Subito la curiosità si è trasformata in interesse, che mi ha spinto a leggere, tutto d'un fiato, l'intero articolo. Il fatto clamoroso e singolare, non poco frequente, è avvenuto nella città di Prato, dove il signor Maurizio Bettazzi, un ex politico, dopo aver portato sulle spalle la croce per salire sul “calvario", trascorsi dieci interminabili anni, è stato assolto. E così grande è stata la sua soddisfazione che ha voluto prendersi - come si usa dire nel mio paese - lo "sfizio" di tappezzare la sua città con cartelloni giganti, dalle dimensioni di quattro, cinque metri con la scritta altrettanto gigante "Assolto dopo dieci anni - Il fatto non sussiste". L'accusa, cioè il reato penale per il quale il malcapitato assessore era stato rinviato a giudizio, era quello dell'abuso di ufficio e della concussione. Domando: occorrono dieci anni per emettere una sentenza di assoluzione perché "il fatto non sussiste"? Ma non scrivo questa lettera per evidenziare un caso di malagiustizia - sono tanti, che non fanno più notizia - ma per dire che, oltre quarant'anni fa, io avrei dovuto fare la stessa cosa che ha fatto il signor Bettazzi. Perché fui accusato di omicidio colposo pur non avendo alcuna colpa; per essere, poi, assolto, dopo cinque anni con formula piena: "il fatto non costituisce reato". Anzi, rispetto all'ex assessore di Prato, io avevo non uno ma tre motivi per farlo. Perché il mio era un caso di malasanità (un’infermiera non aveva saputo assistere una depressa, ricoverata nel mio reparto, e il direttore sanitario non aveva saputo - o voluto? - stilare, a dovere, secondo scienza e coscienza, cioè escludendo una testimonianza preziosa, quella di una malata di mente perché aveva assistito al tragico evento e, quindi - in quanto malata - non sarebbe stata credibile, dal rapporto informativo inviato alla Procura. Ed era anche un fatto di "malamministrazione", perché l'amministrazione non aveva provveduto a dotare di sbarre una finestra, lasciata quel giorno spalancata e incustodita, disattendendo la legge del 1904 che regolava la vita, l'assistenza e la custodia dei malati potenzialmente pericolosi in un Ospedale psichiatrico. Perché ancora la legge Basaglia non era stata varata al momento in cui si era verificato il "fattaccio". Per concludere, non feci nulla, non denunziai nessuno, nemmeno il magistrato che mi aveva rinviato a giudizio, che aveva disatteso alcune norme del codice di procedura penale. Non ricorsi alle carte bollate. Avrei potuto farlo. Non lo feci per non creare polemiche su fatti ormai passati. Volli solo scrivere, dopo quasi quarant'anni, un romanzo-denuncia, dal titolo "Ingiustizia è (quasi) fatta", col quale vinsi il Primo premio ad un concorso letterario nazionale, bandito dalla Feder.S.P.eV., nell'anno 2016. Fu per me una grande rivincita, un’immensa soddisfazione. Anche perché nessuno mi querelò per diffamazione.