Il dramma di chi muore in solitudine, Sisinni: "sia garantita una Medicina dal volto umano"

a cura della 09 Giugno 2021

Morire in solitudine è la sorte più amara che possa toccare agli umani. Il grande giornalista, laico e probabilmente non credente, Indro Montanelli, in un’intervista,

a chi gli chiedeva se avesse paura della morte, così, senza esitazione, rispose: “No! Non temo la morte ma il morire”. Ed aveva piena ragione, perché tutti tremiamo, anzi trepidiamo al pensiero non di dover morire – siamo convinti della ineluttabilità di questo evento, quando la campana suonerà anche per noi (per dirla con Hemingway) – bensì a quello di dove e come morire. Il saggio Seneca, nelle famose “Lettere a Lucilio” (26,7) scrisse: “Incertum est quo loco te mors expectet: itaque tu illam omni loco expecta” (Non puoi sapere dove ti attenda la morte, perciò aspettala dovunque).
E proprio questo è il punto: ognuno di noi vorrebbe che lo cogliesse non dovunque ma sotto il tetto della propria casa e nel proprio letto. Il poeta Florian Chrétien, nel suo libretto “Non più giovani”, così scriveva: “Mi sia concesso di morire dolcemente, in compagnia di una persona cara che mi prenda la mano e mi accompagni sino alla soglia della Casa del Padre. Qualcuno mi legga la prima lettera di san Paolo ai Corinzi. E perché no, un po’ di fantasia! Qualcuno mi legga qualche bella poesia e mi faccia ascoltare la Quinta sinfonia di Beethoven”.

Ovviamente, queste espressioni valgono per chi crede – e io sono convinto che nelle ultime ore della vita tutti o quasi diventiamo credenti – ma, ne sono certo, anche chi non crede vorrebbe morire in compagnia di un familiare caro (la moglie o il marito, la mamma o il padre, il figlio o la figlia). Ora, per attualizzare questo mio lungo discorso, fatto a mo’ di premessa, devo dire, con molta amarezza, che la pandemia da Covid, pur lodando senza limite lo sforzo di tanti operatori sanitari che hanno combattuto e combattono in prima linea il virus, rischiando in ogni momento la propria vita – non di quelli che, in giacca e cravatta, passano da un canale televisivo all’altro discettando, minacciando, spaventando e disorientando la gente (l’informazione dovrebbe essere misurata e non contraddittoria) – il Comitato tecnico-scientifico avrebbe dovuto ascoltare anche i rappresentanti di un Comitato etico.
Questi avrebbero dovuto trovare il modo per far morire nel modo più dignitoso possibile o, almeno, in quello meno inumano. Questo è mancato. Un mio collega in pensione da anni che – guarda caso – aveva dato la disponibilità a rimettere il camice bianco e a vaccinare, in assoluta gratuità, mi ha telefonato questa mattina, in lacrime, per darmi la brutta notizia della scomparsa della moglie, dopo alcune settimane trascorse in sala di rianimazione, durante le quali non gli è stato concesso di guardarla in faccia neppure una volta. E per questo motivo non si dà pace, non si rassegna ed è disperato. Non vorrei, a questo punto, che qualcuno interpretasse male il mio pensiero: non voglio dire che la possibilità di vedere il proprio familiare dovrebbe essere data ai medici e negata ai non medici. No, assolutamente no! Dovrebbe essere data a tutti, nel pieno rispetto delle norme anti-Covid. Cioè ci dovrebbe essere un gruppo di persone in ogni sala di rianimazione che faccia indossare le sofisticate tute protettive con i caschi appositi che indossano gli operatori del 118 quando ricoverano un paziente Covid-positivo con gravi sintomi di insufficienza respiratoria per far vedere, per qualche momento, il proprio familiare in fase preagonica o agonica. Questa sarebbe la Medicina dal volto umano, cioè tecnologicamente avanzata e, nello stresso momento, umanamente non arretrata, per non dire proprio inumana.

Redazione

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