Convento di Sant'Elia, nuove scoperte e nuovi scenari possibili

di Marco Antonio Presta 15 Novembre 2020

Sono passati ormai più di due anni da quando ho iniziato le ricerche al Convento di Sant’Elia e da allora, tanti sono stati i passi avanti fatti in ambito storico archeologico.

Naturalmente non è stato semplice, la documentazione riguardante il nostro convento non è tanta, nonostante abbia passato ore all’interno delle biblioteche della zona. Inoltre, a livello archeologico non era certo possibile effettuare una vera e propria indagine approfondita, al fine di non “inquinare” il sito e i suoi eventuali ritrovamenti. Nonostante ciò, le nostre ricerche ( mie e dei due ragazzi che ormai da tempo mi accompagnano in questa impresa, Simone Mazzei ed Eduardo Ursino) hanno portato ad alcuni piccoli punti di svolta. Per avere la certezza assoluta di ciò che sto per dirvi però, dobbiamo chiaramente attendere un’indagine archeologica ufficiale e quindi, una campagna di scavo che presto, si spera, verrà effettuata.

Rimanendo dunque coi piedi per terra e con un piccolo punto interrogativo, vorrei in primo luogo, smentire le voci che ormai da secoli aleggiano sul convento per quanto riguarda la così detta “Grancia dei Calogeri” e cioè una vera e propria azienda agricola Basiliana preesistente al Convento. Purtroppo quella dei Basiliani in questo luogo, per ora è solo una leggenda, non abbiamo mai trovato nulla che fosse riconducibile alla loro presenza, dalle pitture agli anfratti con all’interno vere e proprie stanze e cappelle. Sappiamo benissimo che nel 762 a.C., quando l’imperatore bizantino Leone III Isaurico, emanò il famoso editto che si concluse con la persecuzione iconoclasta a scapito soprattutto dei Basiliani, i poveri monaci, dall’Oriente si rifugiarono nell’Italia Meridionale ( soprattutto Calabria, Puglia e Sicilia), dove nei primi anni si nascosero in anfratti naturali riadattati a dimora (le Laure), creando dei veri e propri ambienti sotterranei con celle e piccole cappelle affrescate con colori che tendevano solitamente al rosso, giallo e bianco. Purtroppo nel nostro Convento non è stato trovato nulla di tutto ciò se non alcune grotte chiuse caratterizzate da brevi corridoi, che a breve tratterò in questo articolo. Quello però che ha destato la nostra attenzione, è un’iscrizione ritrovata proprio sulla facciata principale dello stabile centrale, un acronimo: “MCO”, la lettera “m” quella mariana (una “M” stilizzata sovrastata da una “A”); facendo alcune ricerche e grazie anche alla segnalazione di un nostro utente sulla pagina Facebook, abbiamo con sorpresa, notato che quell’acronimo per esteso è riconducibile a “Madonna del Carmelo”, scoperta molto interessante se la ricolleghiamo anche al contesto in cui si trova. Il monte Carmelo, una delle montagne più belle della Terra Santa, è fortemente legata al profeta Elia, che scelse proprio questo monte per ritirarsi in eremitaggio, diffondendo la parola di Dio tra i suoi “seguaci” e dando vita alle prime pratiche di vita monastica. Secondo la leggenda, dopo la sua morte, i suoi discepoli, insieme agli apostoli iniziarono a diffondere il Vangelo. Questo luogo, con le sue piccole grotte, divenne luogo di pellegrinaggio per i fedeli, che si recavano lì per pregare. Dopo la terza crociata (1189-1119 d.C.) alcuni penitenti pellegrini, si aggregarono presso questo luogo per vivere in forma eremitica, imitando il Santo Profeta, dando così vita ai “Fratelli di Santa Maria del Monte Carmelo”. Da qui iniziarono a diffondersi nel mondo i Monaci Carmelitani, arrivati anche da noi tra il XIII e il XIV secolo circa. Testimonianza carmelitana in questa zona è l’odierno Convento dei Cappuccini di Campi Salentina, fondato da Don Giacomo Maci nel 1612 con lo scopo di ospitare i carmelitani in transito, che si stanziarono lì fino al 1652 (da qui in poi iniziò una lotta durata anni, per la riassegnazione che avvenne nel 1706 a favore dei frati cappuccini, ma questa è un’altra storia). Da questa affascinante storia, possiamo ben intendere che i Monaci Carmelitani frequentassero le nostre zone e che quella iscrizione sulla facciata principale del Convento di Sant’Elia, potrebbe essere di riferimento ad un loro presidio, visto che le fonti parlano di un riutilizzo dei materiali del sito per poter costruire il Convento, ma non solo: la zona, denominata Sant’Elia, potrebbe essere un chiarissimo riferimento alla frequenza del posto di questi monaci. Insomma, per le ricerche finora effettuate, possiamo escludere che i basiliani siano stati protagonisti di questa fantastica storia ancora tutta da scoprire.
Importanti ricerche sono state fatte anche sulle grotte che si trovano all’interno del bosco, molte ipotesi sono state avanzate al fine di cercare di capire la loro origine e il loro utilizzo. Ciò che però, potrebbe dare una svolta alle nostre ricerche, è il probabile (sempre da dimostrare) collegamento che queste grotte avrebbero con i Messapi e, soprattutto, con uno specifico rito legato alla Dea Demetra e a sua figlia Persefone (Dee adorate dai Messapi). Molte persone anziane, cresciute proprio in quei luoghi, ricordano un grande calice in pietra adiacente agli anfratti di cui parliamo, calice ormai depredato molti anni fa e non più analizzabile in termini storico-archeologici. Ma la sua traccia, lasciata nella memoria di chi ha giocato come tutti noi in quei posti, ha dato modo di proseguire le ricerche. La presenza di questa grande coppa è molto importante, in quanto possiamo ipotizzare che quella parte di bosco, possa far parte di una zona sacra, dove si praticavano riti legati al passaggio in età adulta, delle fanciulle. Il rito avveniva di notte e, prima che la processione, guidata da una sacerdotessa (tabara damatriovas) partisse, le fanciulle si purificavano, attingendo l’acqua da questo bacino poggiato su un alto piede; successivamente, iniziava il corteo processionale verso le grotte, illuminate da fiaccole e lucerne. La sacerdotessa reggeva in mano un vassoio intrecciato contenente le melegrane, simbolo di fertilità, mentre le fanciulle, al seguito, avevano delle bambole di pezza che avrebbero lasciato alla fine del percorso all’interno della caverna, dove ad attenderle c’erano le statue di Demetra e Persefone, ad indicare il loro futuro stato di spose e madri all’interno della comunità. Il rito naturalmente era un po’ più complesso, perché oltre alle fanciulle si univano in processione le giovani madri per consacrare i neonati e altre donne che portavano in sacrificio un maialino (animale prediletto da Demetra) che da lì a breve sarebbe stato sacrificato. Fuori dalla grotta, alcuni inservienti preparavano una scrofa gravida per il sacrificio, adornandola con ghirlande e bende votive, e allietandola, per tenerla calma, suonando l’aulos, (una specie di doppio flauto dal suono dolce). In una grande cesta, tante offerte di frutti vari e tarallini, prima bolliti e poi infornati, così come facciamo noi oggi.
Questo era uno degli scenari possibili, all’interno del bosco conventuale, naturalmente, lo ripeto, queste sono, ad oggi, solo ipotesi, forse le più vicine alla realtà, infatti, la statuetta raffigurante un uro, ritrovata da me molto tempo fa in questa zona, era probabilmente un tipico giocattolo dei bambini Messapi, i così detti “tintinnabula”, veri e propri animali in pietra, con cui i ragazzini passavano spensierati le giornate, riscaldati dal caldo sole del nostro splendido Salento. Infine, uno degli ultimi ritrovamenti, anch’esso importantissimo per la ricerca, è un piccolo pezzo di bronzo dalla forme simile a quello di una collana, risalente, probabilmente appunto, all’età del bronzo, con una forma sferica appiattita e un buco in mezzo; possibile testimonianza fondamentale che potrebbe dimostrare quanto questo splendido posto sia estremamente antico.
Ad oggi le ricerche vanno avanti, non vi nascondo che stiamo facendo di tutto per organizzare una campagna di scavo, in modo da poter far riemergere parte di ciò che potrebbero essere le nostre origini, ma vi garantisco che non è semplice. Tanto è l’amore da parte della gente per questo posto, tanto è anche l’interesse, di chi probabilmente ci vede solo una fonte di guadagno. La verità però è che il convento merita di essere valorizzato da chi vuole realmente consegnarlo al popolo; è lì da secoli e finalmente, noi che lo amiamo davvero, stiamo cercando il modo migliore per esprimerne le potenzialità affinchè tutta la comunità ne possa fruire. Detto ciò vorrei farmi portavoce di chi come me è cresciuto nei verdi paesaggi di questo posto meraviglioso e dire: “il convento non si tocca, il convento è affar di popolo!”.

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