Sono stato consultato da una persona con problemi di grave disabilità fisica, che lavora da anni in un comune, vittima - a suo dire - di aggressioni verbali mentre svolgeva la sua attività lavorativa.
Che per altro, è socio del “Midu sport club”, un’associazione di disabili con sede a Carmiano, in provincia di Lecce.
Non scrivo questa pagina per difenderlo, anche perché, quando è successo il deplorevole fatto, non ero presente né ho testimonianze attendibili di altre persone in merito al fatto realmente accaduto, del quale ha dato notizia “La Gazzetta del Mezzogiorno”, in data 30 maggio 2021.
Scrivo, invece, per sollevare il problema dell’handicap in occasione della Giornata Mondiale della Disabilità, che cade nel prossimo mese di Dicembre. Già perché si fa, di solito, un gran parlare di soggetti disabili, che da un pò di anni li si indica con l’espressione “diversamente abili”, come se fosse sufficiente a coprire le gravi inadempienze delle quali la società dei cosiddetti “abili” è debitrice nei loro riguardi.
Non basta provvedere ad eliminare le barriere architettoniche. Questo è un compito che devono svolgere, per legge, le Pubbliche amministrazioni. Le barriere più importanti da abbattere sono quelle psicologiche, vale a dire i tanti pregiudizi che ancora li circondano.
Faccio un solo esempio, davvero eclatante, ricavandolo dalle mie memorie professionali, che non fa certo onore alla classe medica, della quale faccio parte sin dal lontano anno 1966. Ebbene, un paziente schizofrenico cronico, degente nel mio reparto, fu colto da un ictus cerebrale ed entrò in coma profondo. Convinto che anche per un malato di mente cronico, che per la società non ha più alcun valore economico, anzi rappresenta un peso, vada fatto tutto ciò che normalmente si fa per una persona sana di mente, mi adoperai a trasferirlo subito al Centro di rianimazione dell’ospedale più vicino, con l’ambulanza del mio - all’epoca- non era ancora stato istituito il servizio “118” di urgenza/emergenza, assistito nel trasporto da un mio infermiere, al quale avevo affidato la cartella clinica.
Quest’infermiere, una volta accolto il paziente e messo a letto, intubato e monitorato per quanto riguardava pressione arteriosa e attività cardiaca voleva tornare nel mio reparto per continuare a svolgere il suo lavoro. Ma non gli fu concesso, perché - a dire del Primario di quel Centro - doveva sedere accanto al letto del paziente, aspettando l’altro infermiere, sempre del mio reparto a fine turno, affinché gli desse il cambio.
Non è assurdo, oltre che antiscientifico? Si ha paura di un malato mentale, di un disabile, anche quando è in coma profondo!
Ho voluto portare questo esempio, raro sì ma molto significativo, per dire quanta strada c’è ancora da fare per vincere i pregiudizi, per togliere ad alcuni malati lo stigma della pericolosità sociale.
Chiudo questo mio scritto, riportando fedelmente il pensiero di P.Mariotti, G.Maraki, R.Rizzi, espresso a pag.19 del libro “I diritti dei malati” (Arnoldo Mondadori Editore): “Tutti i diversi tipi di salute riscontrabili nella realtà hanno però due caratteristiche comuni: la prima è che la salute è un diritto soggettivo, primario della persona costituzionalmente garantito, sia nel rapporto tra privati, sia nel rapporto con la pubblica amministrazione. In secondo luogo la nozione di salute è intesa oggi in una dimensione molto più ampia rispetto a quella classica della patologia e della clinica, fino a comprendere ogni alterazione del benessere fisico, mentale e sociale”. I “diversamente abili” sono malati e meritano, in ogni occasione e in ogni luogo (in ospedale, in ufficio, in famiglia, nella scuola, per la strada, età) lo stesso trattamento dovuto alle persone cosiddette “sane”, che, per altro, prima o poi, per una legge della vita, non scritta - forse la più giusta - potrebbero trovarsi, da un momento all’altro, prima o poi, nella loro stessa condizione.