Non avevo bisogno di vedere femmine griffate e strategie d’effetto. Eravamo quattro anime a respirare un ritorno di tradizione.
Mi sono concessa di viaggiare in stagioni diverse, e chiudendo gli occhi, le luci, la data, l’attesa mi sono sembrate le stesse.
Sono capitata per caso, richiamata dalle coincidenze di gioventù, quelle che mi ritrovo sempre nel paltò dicembrino e nelle sciarpe rosse che fanno euforia.
Mi sono ritrovata a vedere vestire un santo, mentre mi spogliavo delle mie presunzioni.
Ho tenuto anch’io sull’omero quel simulacro così familiare, con le tre palle d’argento, che ce le presta tutte..., con lo sguardo orientale che ci ricorda i nostri fumi levantini, con la tiara e la tinozza accanto ai piedi da dove risorgono la nostra innocenza, il candore e la meraviglia: tre creature perdute qua e là.
Ho applaudito senza vergogna, recuperando obbedienze bambine, e ho avuto i lucciconi mentre le statue passavano accanto a me e pensavo... A chi pensavo? Al calendario dei miei sforzi e a chi amo così forsennatamente da desiderare per essi solo protezione.
Mi sono concessa di non vedere i politici, ma solo uomini normali, qualunque, uguali, con la gastrite, con l’allergia, con l’asma; mi sono permessa di non vedere anticipazioni elettorali, che il santo ci avrebbe riso su. E mi sono permessa di sperare, attraversando vie e case abbandonate, ci ho visto qualche luce diversa, piccole stelle tutte uguali, che brillavano in coro dicendo “possiamo farcela”.
Ci ho voluto vedere la luna che si apriva benevola e Giove propizio e luminoso, lì, in un angolo del cielo, in una scenografia da film, in un fazzoletto di poesia.
Eravamo poche anime tenute insieme dal timore e in ordine, in silenzio. Piccoli tocchi di gomito, ma se avessi potuto avrei abbracciato tutti, ad uno ad uno, e avrei anche abbracciato il santo e all’ orecchio, davanti a tutti, senza vergogna, gli avrei suggerito cosa fare.
Avevo bisogno di veder arrivare dicembre, e l’odore di pigne sul fuoco, e fascine accanto alle porte, e rituali di cibo. Avevo bisogno di immaginare novene e preghiere, cose vetuste che mi riportano l’ odore di mia madre e dei suoi foulard sul cappotto. Avevo bisogno di vecchi messali, immaginette di carta, piccole reliquie da scordare in borsa.
Eravamo pochi per salutare due simulacri. Il nostro Santo. La nostra Vergine.
Quelli che dalla nascita ci portiamo dentro l’ acquasantiera fino alla morte, e nel mezzo c’è una vita intera da arrampicare ad altre vite.
Ho voluto essere antica, obsoleta, credente, commossa, emozionata, perché era giusto così, dopo un mese di sofferenze fisiche, che ho benedetto anche quelle, solo per questa serata di piccola fede tutta mia.
Ho bussato a tutte le porte chiuse, ho messo luci davanti ogni finestra, ho messo in forno mille torte, ho giocato con ogni bambino, e il paese ha sorriso e tutti insieme hanno deciso di farcela e di crederci.
Ho vissuto tutti gli addi, e le persone scomparse, e i tradimenti e le calunnie e le offese e i furti e mi sono sentita ricchissima.
Sono usciti insieme per la prima volta, Nicola e Maria, ed una energia immensa ha percorso le poche sagome, ed eravamo altissimi come campanili, forti come le campane, luccicanti come le luminarie. Ed eravamo una folla sterminata.
Una folla sterminata che non è ancora andata via, resta lì, su quella piazza, per tutta la notte, a tenersi per mano e a farcela.