Pubblichiamo di seguito una lettera del dottore squinzanese Salvatore Sisinni, in occasione delle festività natalizie.
"Questa mia, di oggi, non è la solita lettera ai giornali sui fatti e problemi della vita, che mai, come in questo periodo, sono stati tanti - e tanto gravi -. Mi riferisco alla guerra in Ucraina, agli sbarchi incontrollati dei migranti, al caro bollette, alla pandemia da Covid che minaccia di ritornare e - come se non bastassero - agli scandali che stanno travolgendo i vertici dell'Unione Europea, in occasione e a causa dei Mondiali di calcio che si stanno svolgendo nel Quatar. Si badi bene, si tratta di reati gravi: corruzione, associazione a delinquere e riciclaggio di denaro sporco. Ma vuole essere, la mia, una riflessione, non banale (almeno, secondo le mie intenzioni), all'ombra di un albero di abete illuminato, sotto il quale è collocata una grotta, una stalla, simbolo universale della vita che nasce. In tutto l'anno, quella del Natale, è la festa per eccellenza. Supera quella di Pasqua che, invece, per la chiesa cattolica è più importante. A Natale le famiglie si riuniscono, gli emigranti tornano nei loro luoghi di origine. Le vie illuminate, le vetrine addobbate ad arte, i tappeti rossi sui marciapiedi dei negozi, le arie di alcune nenie natalizie che si diffondono nell'aria invitano a gioire. I credenti che hanno partecipato - come chi scrive - alla Messa della III domenica di Avvento hanno sentito riecheggiare il ritornello: "È tempo della gioia, è tempo della gioia…". Però, il Natale, in stridente contraddizione, è anche il tempo dell'amarezza, della solitudine: chi è ricco si sente più ricco, chi è povero si sente più povero e chi è solo si sente ancora più solo. E chi è depresso ancora più depresso. Ora, la depressione è una malattia che va curata, la solitudine, invece, è una condizione di vita - che può trasformarsi in depressione - che va accettata e nei limiti del possibile superata in vario modo. In questa vita terrena la felicità non esiste, mentre la serenità d'animo è possibile. Basta volerla e saperla cercare. Poi, devo aggiungere che la solitudine, l'abbandono si prova maggiormente in alcuni luoghi: ad esempio, nelle carceri, quando si fugge dalla guerra - un evento tanto più irrazionale tanto più provocato dalla fame di potere e di possesso - tra mille ostacoli e rischi; e, infine, soprattutto quando si è in un letto di dolore, in una corsia d'ospedale e, ancor più, in quella di una struttura psichiatrica, dove non si è e non si può essere liberi.
A questo punto devo aprire lo scrigno delle mie memorie professionali, per raccontare, per sommi capi, la storia triste di un vecchietto malato di mente, ma da anni non più pericoloso, vittima, però, di un pregiudizio che - ahinoi! - ancora persiste: quello secondo il quale un malato di mente, considerato pericoloso al momento del primo ricovero, lo rimane a vita. Niente di più falso! Il vecchio Pasquale (nome di fantasia), alla vigilia di Natale, ricevette, come di consueto, la visita del figlio che gli portava i sigari e, per l'occasione, un panettone. Questa volta, però, aveva con sé il più piccolo dei figli, Enrico (nome di fantasia), di appena otto anni, che non ancora aveva conosciuto il nonno. Entrato in reparto, Enrico vide un vecchio seduto in fondo ad un lungo, disadorno, freddo corridoio e, sollecitato dal padre, timidamente si avvicinò, gli consegnò il panettone e lo baciò sulla guancia. Pasquale si commosse fino alle lacrime, che sgorgavano copiose sul suo viso emaciato, anche da tanti anni di sofferenza e di solitudine. Neanche volendo le poteva asciugare, non disponendo nemmeno di un fazzolettino di carta. Enrico lo guardò intensamente, vincendo la timidezza, gli si avvicinò ancor di più e, a sorpresa, gli chiese: "Nonno, perché domani, giorno di Natale, non vieni a casa a mangiare con noi? Pasquale rimase muto, non rispose, ma il suo silenzio parlava, anzi, oserei dire, era assordante, per non dire proprio gridava vendetta. Poi, disse al nipotino, in attesa di risposta: "Chiedilo a papà!", avendo assistito a tutta la scena, profondamente commosso - i medici non si commuovono facilmente -, mi ritirai nel mio studio e, quasi per distrarmi, per superare quell'emozione inattesa, prendevo in mano la cartella clinica di un altro malato, la sfogliavo senza riuscire a leggervi niente. Dopo pochi minuti, accompagnato da un infermiere, entrò, nel mio studio, il figlio di Pasquale che, con la voce rotta dall'emozione, mi comunicò la sua decisione di condurlo a casa non per qualche giorno ma per sempre. Pensai, con mal celata tristezza, che quella dimissione l'avevo proposta tante volte e non era stata mai accettata. Aveva fatto la stessa cosa la mia Assistente sociale, minacciando la segnalazione al Giudice tutelare di competenza con lo stesso risultato. Il Giudice avrebbe potuto disporre la revoca del provvedimento di nomina di tutore al figlio con il conseguente ritiro della delega a riscuotere la pensione del vecchio padre. Nessuno di noi due era riuscito ad ottenere la dimissione di Pasquale. In quella vigilia di Natale fecero il miracolo - è proprio il caso di dirlo - le poche, semplici parole di un bambino, il nipotino Enrico, pronunciate in quel freddo corridoio del manicomio, nei pressi di un albero di Natale e di un Presepe, due immagini simboliche (suggestiva una e sacra l'altra) della famiglia. La quale dovrebbe rimanere sempre unita, ricca di affetti e sentimenti, anche se povera di sostanze. Nonostante la malattia, anzi, ancor di più nella malattia. È proprio vero quel che si legge nel “Talmud”, uno dei sacri testi dell'ebraismo: "Il mondo non si mantiene che per il fiato dei bambini. Il respiro dei bambini è un soffio delicato, ma indispensabile per tutta l'umanità, essendo la promessa sulla quale ciascuno di noi fonda le speranze in un futuro migliore. C'è, comunque, da riflettere a lungo...A tutti i lettori buon Natale!".