L’ennesima tragedia familiare: un caso di violenza estrema contro la moglie e poi – come da copione – contro se stesso. È accaduto, alcuni gironi fa, a Cerignola (Foggia) nella Regione Puglia.
Un uomo 83enne ha ucciso con un colpo di pistola la moglie e subito dopo ha rivolto l’arma, regolarmente detenuta, contro se stesso. È toccato ad uno dei figli che, per altro, abitavano nello stesso palazzo, a fare la macabra scoperta. Si è parlato, il giorno dopo, di un “giallo” perché nessuno prevedeva la tragedia, né i due figli né i vicini di casa. Il fatto è che questi drammi intrafamiliari stanno aumentando sensibilmente, su tutto il territorio nazionale, tanto nelle Regioni ricche del Nord quanto in quelle del Centro e del povero Sud. Il 20 aprile scorso, a Rocca Nervina, un paese di 280 anime dell’entroterra di Ventimiglia, un uomo 80enne con un coltello, ha sgozzato la moglie e il cane, durante la notte, e poi si è rimesso a letto per dormire. Incredibile, ma vero! E anche a Roma c’è stata, giorni fa, un’aggressione postata sul Web: “Guarda che bombe che le ho dato!”. Una 12enne disabile era stata presa a botte dalle baby-bulle, finendo in ospedale per un trauma cranico. Prima c’erano i bulli, ora sono scese in campo le bulle. Ma, che società è questa? Dove sono i genitori? Il fatto è che, da qualche decennio a questa parte, c’è una caduta verticale dei valori, quali – per citarne solo alcuni – l’importanza della vita, quella della famiglia unita, del volontariato sociale.
Il famoso sociologo Francesco Alberoni, nel suo libro “Valori”, anni fa scriveva: “Siamo il prodotto di una dedizione e siamo impegnati ad una dedizione. Per questo motivo una azione rivolta solo a noi stessa, puramente utilitaria, puramente egoistica, è vuota e produce una impressione di inutilità. Una vita che non è ‘dedicata’ è priva di senso”.
Parole sacrosante, sì, ma chi le mette in pratica? Intanto la violenza tra le persone, in particolare contro le donne, dilaga.
Nonostante siano nati, ormai da anni, e diffusi in tutta la Penisola, financo nei piccoli paesi, i Centri anti-violenza. E, si badi bene, in questo anno e mezzo di pandemia, ancora di più. Quali le cause? C’è materiale di studio e di riflessione per molti esperti: psicologi, sociologi, psichiatri, uomini politici e di legge. È frequente il caso che uno dei due coniugi, di solito la donna, si affetta da una malattia grave e incurabile – ad esempio l’Alzheimer o un tumore maligno, in fase molto avanzata -. In altri casi, piuttosto frequenti, la gelosia morbosa, patologica. Molto spesso, infatti, tra i due coniugi o fidanzati o amanti c’è in corso una causa di separazione oppure azioni di infedeltà.
Queste possono essere reciproche, ma i coniugi reagiscono diversamente. È più facile che sia l’uomo ad armarsi e a premere il grilletto o ad affondare la lama contro la partner. La donna, invece, per carattere, è meno impulsiva, più riflessiva, per cui non arriva a colpire mortalmente il suo partner e, poi, con la stessa arma, a compiere il gesto estremo, il suicidio.
La donna ha una soglia di sopportazione del dolore più alta rispetto all’uomo; metabolizza più facilmente la sofferenza che comporta una separazione coniugale o lo stesso divorzio. Trova altre soluzioni: se ha figli, si dedica a loro con maggiore intensità; se è in pensione sceglie la via del volontariato sociale e – se credente e praticante – quella religiosa, cioè nell’ambito della parrocchia. Gli atti, anzi i reati, di sangue hanno quasi tutti dei risvolti negativi e pesanti, cioè quelli giudiziari (quasi sempre quando l’aggressore, omicida, rimane in vita). A quel punto entrano sulla scena gli avvocati difensori e quelli dell’accusa, nonché i periti da una parte e dall’altra. Si arriva, quindi, al dibattimento in aula. Spesso si chiede la perizia psichiatrica perché, se si riesce a dimostrare che l’omicida, al momento in cui ha commesso il fatto, non era in condizioni di intendere e di volere, la pena è molto minore e la si sconta in un luogo di cura, che non è il famigerato manicomio criminale di un tempo.
Chiuso ormai da alcuni anni, bensì in un carcere differente da quelli civili, dove possono essere custoditi e curati (luoghi che ogni Regione dovrebbe avere). Se, invece, viene dichiarato parzialmente incapace di intendere e di volere la pena è maggiore e da scontare sempre nello stesso luogo regionale di detenzione e cura. Altra considerazione, per finire, riguarda poi i figli che sopravvivono alla tragedia. Se minori, devono essere dati in adozione, con tutte le ricadute di natura psicologica sulla loro personalità in via di formazione; se, invece, adulti, possono verificarsi sensi di colpa per non aver colto eventuali segni premonitori della tragedia che si sarebbe verificata. E non c’è niente di più brutto dei sensi di colpa, perché possono scandire, poi, in negativo l’intera esistenza. Non ci si abitua facilmente alla perdita del padre per un atto di violenza, ma, in modo particolare, a quella della madre, la persona più cara al mondo che ognuno di noi ha avuto in dono.
(Lettera del dottore Salvatore Sisinni).